Data:
Ven 27/04/2018

Descrizione:

Conferenza pubblica sulla filosofia buddista

Descrizione della conferenza con le parole del relatore:

L’intervento presenta i risultati dell’indagine sulla filosofia Gelug-pa da ma svolta presso l’Università monastica di Sera Jey durante il periodo del mio dottorato. L’esigenza da cui nasce questa ricerca sorse però diversi anni prima, quando cominciai ad entrare in contatto con il pensiero tibetano, soprattutto attraverso la frequentazione delle lezioni tenute da alcuni Geshe Lharampa presso i centri di Dharma italiani.

 

Da studente di filosofia, quale ero al tempo, capii presto di trovarmi di fronte ad un sistema filosofico tanto profondo quanto complesso, dotato di un grado di tecnicità e di una consistenza argomentativa che nulla aveva da invidiare ai contesti filosofici che mi erano più familiari. L’idea che il pensiero buddhista avesse un carattere prevalentemente etico-pratico o mistico – idea che può forse trovare riscontro in altre tradizioni, ma non certo in quella tibetana, specie se di Scuola Gelug-pa – fu definitivamente spazzata via quando assistetti per la prima volta ad una presentazione della vacuità, con il caratteristico arsenale dialettico e l’abbondare di espressioni tecniche, che al tempo mi apparivano tanto affascinanti quanto incomprensibili. Fu così che volli saperne più, continuando a frequentare i centri e cominciando a leggere tutto ciò che poteva gettar luce su questa filosofia. Ero affascinato in particolare dalla visione della Scuola Cittamātra (“Sola mente”), che sovente tornava nelle esposizioni della verità o realtà ultima. L’idea che la totalità dei fenomeni non sia altro che una manifestazione della mente, e che la natura ultima di tutte le cose debba essere ricerca in una condizione di assoluta non dualità soggetto-oggetto, non solo mi sembrava assai convincente, ma mi ricordava anche molto da vicino le forme più estreme di idealismo note al pensiero occidentale, alle quali ero particolarmente affezionato.

 

Tuttavia c’era un fatto che mi turbava: nelle varie esposizioni a cui assistevo, la visione Cittamātra era presentata sì come una prospettiva filosofica elevata, ma non come la più elevata; al di sopra di essa, nella caratteristica scala ascendente con cui viene presentata dai Maestri Gelug-pa la realtà ultima, vi era ancora la Scuola Madhyamaka. Non solo: quest’ultima era a sua volta suddivisa in due livelli progressivi di comprensione filosofica, corrispondenti ai sistemi noti come Madhyamaka Svātantrika e Madhyamaka Prasaṅgika. Il mio sistema filosofico ‘preferito’, dunque, era separato da ben due gradini di profondità da quello che, secondo la Scuola Gelug-pa, rappresenta il punto di vista definitivo sulla realtà! Quando provavo ad esprimere ai Maestri che avevo occasione di incontrare nei centri questa mia predilezione per la visione della Sola Mente, le risposte che ricevevo erano per lo più positive: la visione Cittamātra è comunque un’ottima prospettiva filosofica; ero fortunato ad avere una così forte predisposizione nei suoi confronti e ciò era probabilmente dovuto alla presenza di impronte relative a questa dottrina nel mio continuum mentale. Non solo: adottando questo sistema filosofico, mi dicevano, è comunque possibile ottenere un alto grado di realizzazione spirituale, benché non il massimo. Ovviamente tutto ciò non mi bastava e, anzi, suonava alle mie orecchie come una sfida: se studiosi, pensatori e uomini contemplativi di un calibro così elevato – come sempre più mi apparivano quei monaci tibetani, che un tempo avevo immaginato come mistici e uomini di preghiera, molto distanti dal rigore del pensiero filosofico – ritenevano che la visione Cittamātra non era la visione filosofica definitiva, io dovevo assolutamente comprenderne la ragione.

 

Il problema era acuito dalla scarsa simpatia che provai inizialmente per la Scuola Madhyamaka: tanto l‘approccio della Sola Mente mi sembrava semplice, intuitivo ed esplicito nel rispondere alle domande che mi stavano più a cuore, prima fra tutte quella intorno alla relazione tra soggetto e oggetto, quanto lo stile Madhyamaka mi sembrava invece elusivo, quasi sofistico. Mi lasciava una sensazione di ambiguità che mi impediva di comprendere chiaramente su quale piano andassero collocate la caratteristiche conclusioni a cui giunge questa filosofia, ad esempio che tutti i fenomeni sono mere designazioni concettuali, meri nomi. Che cosa significava? Era forse un altro modo per dire che i fenomeni sono solo costruzioni, manifestazioni della mente? Ma allora dove stava la differenza con la visione della Sola Mente? Era solo una differenza di linguaggio che non intaccava la comprensione della realtà? Ma perché allora porre tanta enfasi sulla superiorità della Scuola Madhyamaka? O forse tali espressioni stavano a significare che, ad essere una mera costruzione della mente, era solo il modo in cui i fenomeni ci appaiono, mentre invece, dal punto di vista ontologico, essi possiedono un’esistenza indipendente dalla mente? Mi trovavo forse di fronte ad una filosofia scettica che, muovendo da una critica del linguaggio e delle facoltà conoscitive – non così dissimile da alcuni contesti filosofici contemporanei – giunge a dimostrare l’impossibilità di affermare alcunché di oggettivo sulla realtà, senza però nulla togliere all’esistenza di un mondo ‘là fuori’, indipendente dalla mente?

 

Quest’ultima possibilità in particolare mi preoccupava alquanto. Sarebbe stato infatti assai deludente, per me, ritrovare in Tibet quello stesso ”tramonto della metafisica” che aveva segnato la storia del pensiero in Occidente, e rispetto al quale mi sentivo ancora in lutto. Molti libri e articoli che leggevo – scritti da studiosi occidentali della Madhyamaka – non facevano che alimentare questa ipotesi, presentando Nāgārjuna come la versione orientale ora di Kant, ora di Wittgenstein. In generale, la maggior parte d questi autori era concorde nell’escludere che termini quali ‘vacuità’ o ‘natura meramente designata’ dei fenomeni si riferiscano al modo in cui effettivamente i fenomeni esistono: piuttosto, tali espressioni alluderebbero all’incapacità dei nostri concetti di cogliere la realtà oggettiva, destinata a rimanere inafferrabile. Del resto, proprio gli autori che mostravano maggiore familiarità con il buddhismo tibetano – e che, come Jeffrey Hopkins, avevano trascorso lunghi anni in compagnia degli esponenti viventi di questa tradizione – dissentivano dalla maggioranza, affermando esplicitamente il carattere ontologico della vacuità: ad essere ‘vuote’ non sono solo le nostre parole e i nostri concetti, ma proprio le cose stesse.

 

Fu così che, incoraggiato da questa prospettiva, mi misi a studiare ogni testo che trovavo sulla Madhyamaka, e soprattutto, una volta che la mia conoscenza del tibetano lo permise, a fiaccare con le mie domande ogni monaco – Geshe o semplice studente che fosse – che incontravo per le vie di Sera Jey. Da questa avventura filosofica nacque la mia dissertazione di dottorato (di prossima pubblicazione), nella quale cerco delineare nel modo più preciso possibile – e soprattutto più accessibile al linguaggio e alla forma mentis occidentali – quale sia effettivamente la corretta visione Madhaymaka Prasaṅgika secondo Lama Tsongkhapa e, più in generale, la Scuola Gelug-pa. Ciò significa cercare di chiarire in che modo esistono le cose attorno a noi, secondo questa tradizione; qual è il loro rapporto con la mente; perché la visione della Sola Mente non può dirsi corretta e che cosa diavolo significa, in questo caso, che i fenomeni sono ‘mere designazioni concettuali’.

 

Non posso certo dire di avere dissolto ogni dubbio in merito a tali questioni; ma credo di essere riuscito a gettare un po’ di luce su questa impenetrabile filosofia, così ostica eppure così affascinante, rendendola almeno un po’ più accessibile alla nostra comprensione, e mettendo in guardia dai suoi più fuorvianti fraintendimenti.